Il
Colloquio. Monodia a due voci.
Ma la prego si
sieda, si sieda pure
mia cara
signorina minorenne.
Minorenne
ancora.
Minorenne
quanto?
Di venticinque
anni.
Bene, molto
giovane
-le dici-
mentre pensi
-minorenne-
e lei ti
osserva con quegli occhi spaventati
che chissà
quante volte s’è guardata allo specchio
per sentirsi
sicura
prima di
incontrarti,
direttore.
E percorri
l’accurata scelta dei suoi abiti
Sobri,
composti,
camicia azzurra
aperta solo
sull’ultimo bottone
che lascia
intravedere
a stento
le sottili ossa
del respiro
-clavicole,
s’intende-
che viaggiano
veloci luccicando insieme
a quella
catenina d’oro sottile
-sarà un regalo
del battesimo
o della
comunione-
pensi,
mentre lei si
presenta
in tre
aggettivi
proprio come
le hai chiesto
di fare.
E quando si
spiega “precisa”
in realtà non
l’ascolti
chè t’immagini
invece quel giorno
in cui lei ha
deciso di andar via da casa
a studiare
lontano
alle feste,
pensi,
alle scopate,
alle notti
passate su un esame,
riempite di
caffè e aspettative vane.
Le guardi le
clavicole ansimare
d’ansia e di
passione
e ti passi una
mano alla cravatta,
cacci via i
pensieri,
mentre lei si
descrive “socievole”.
Le tue mani,
sudate,
disegnano il contorno
dei suoi anni passati, sul foglio:
cameriera,
baby sitter,
hostess,
qualche volta
modella,
il foglio
racconta,
e mentre si
dice “intraprendente”
tu leggi dei
suoi anni in Inghilterra,
conoscenza
della lingua: Ottima.
Sgualdrina,
sgualdrina,
e ritorni al
suo collo,
un collo magro
e bianco
che pure sui
libri
ha imparato a
piegarsi:
Filosofia, 110
e lode
tesi in
dialettica di Hegel.
E dottorato:
pure.
Un’inguaribile
passione
per i poeti
russi,
e gli
scrittori: pure
tutti quanti li
ha letti,
ti dice,
mentre si
descrive “colta”.
Quante
qualifiche
per così pochi
anni.
Sorridi.
Tu, che dietro
quella scrivania
hai un
calendario
dell’isola di
Pasqua,
che non hai
cornici per diplomi,
per famiglie:
neppure.
Questo lavoro-
dici-
esige personale
di rigore
c’è da avere
qui a che fare
con la gente,
con tutti
questi studi
non sarà che
poi si sente superiore?
Nossignore!-
lei dice
e un po’ trema
la voce
-E allora dica,
dica pure
a me,
che sono il
direttore,
qualcosa che
giustifichi i suoi anni
passati tutti
fitti
in questa
lingua astratta
di tesi e
antitesi
e spirito del
mondo,
in che modo
sarà utile
mi chiedo
nel promuovere
i modelli
d’avanguardia
che la mia
ditta lancia
sul mercato del
climatizzatore?
Mi serviranno
credo
a sopportare
meglio
l’etica del
servo e del padrone.
La fierezza
scorgi
direttore
nel suo sguardo
e il
disincanto: pure.
Resti in prova
qualche mese
signorina,
concediamo un’
eccezione al suo bel viso:
troppi studi la
distraggono,
mi creda,
chè il lavoro
non ha nulla a che vedere
con i massimi
sistemi che mi dice.
con la voce
spezzata,
un respiro
profondo e poi dice:
contratto.
Questa è
l’ultima parola che dice,
la signorina
piange
quando la mandi
via umiliata:
è al denaro che
lei pensa, al denaro!
Soltanto
vergognarsi deve,
a venticinque
anni,
e adesso vada
fuori!
Questi giovani
d’oggi
così arroganti,
questi giovani
d’oggi che hanno studiato tanto
e tu
–direttore- con le mani nella terra di tuo padre
e adesso a capo
della ditta,
faglielo capire
che cos’è il lavoro,
batti le schiene
della loro ambizione,
umiliali pure,
che sono
giovani,
che devono
imparare a tacere,
che devono
imparare ad obbedire.
Rendila arida e
atroce,
questa
giovinezza,
direttore,
adesso che non
ti appartiene.
Presentala
così:
qualcosa da cui
sei scampato,
qualcosa di
troppo simile
al male,
da cui sei
uscito fuori vivo.
La libertà non
c’entra mai
davvero.
(da Articolo 1, una Repubblica AFfondata sul Lavoro)
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